Tanti giocatori si sono uniti alla protesta, sia nelle strade che sui social. Così la Association cerca ancora una volta di essere parte del cambiamento
In molti hanno marciato. Pacificamente, come Jaylen Brown e Malcolm Brogdon ad Atlanta, come Enes Kanter e altri giocatori dei Celtics a Boston, come Tobias Harris a Philadelphia, i fratelli Ball a Los Angeles, diversi giocatori dei Wolves a Minneapolis, Udonis Haslem a Miami e tanti altri. L’Nba si unisce al grido di dolore di un paese ferito, che si trova all’improvviso a fare i conti con decenni di tensioni nascoste, arrivate al punto di rottura dall’insensato omicidio di George Floyd lunedì a Minneapolis. Uno dopo l’altro, i comunicati delle squadre inondano web e social, un grido di dolore sempre più lancinante che si unisce a quello che arriva dalle strade di tutta l’America. Un grido a cui si unisce anche Michael Jordan.
TESTIMONIANZE
Quanto profondo sia il problema lo ha raccontato Kareem Abdul-Jabbar in un editoriale per il Los Angeles Times. “Il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile – anche se ti soffoca – finché non lasci entrare il sole. Poi ti rendi conto che è ovunque. Fino a quando lasceremo entrare la luce, avremo una chance di pulire ovunque si posi”. Parole pesanti come un suo gancio cielo, parole taglienti come quelle che pronuncia Doc Rivers, il coach dei Clippers: “Abbiamo permesso che troppe tragedie passassero invano. Questo non è un problema degli afroamericani. Questo è un problema umano. La nostra società deve abituarsi ad avere quella conversazione che non vuole avere e fare la cosa giusta. Il silenzio non è più accettabile”. Parole profonde come quelle di Dwane Casey, coach dei Pistons: “Quando avevo 8 anni è iniziata la desegregazione delle scuole. Vivevo in Kentucky e ricordo ancora come mi sentivo quando sono entrato in una scuola bianca: indifeso, come se nessuno potesse vedermi, sentirmi o capirmi. Vedo ancora oggi tante persone provare le stesse cose: sentirsi indifesi e invisibili, provare frustrazione e rabbia”. Masai Ujiri, presidente dei Toronto Raptors, ha affidato ad un editoriale sul Toronto Globe and Mail il suo pensiero. “La vostra voce è importante, specialmente se siete dei leader o delle figure di spicco. E soprattutto se siete bianchi”.
SOCIAL
Chi non ha marciato ha affidato ai social il suo sdegno. “Se non siete con noi, noi non siamo con tutti voi” ha scritto LeBron James su Instagram, un messaggio rilanciato da Anthony Davis, quasi tutti i Lakers e moltissimi giocatori ed ex giocatori Nba. LeBron non ha marciato a Los Angeles, dove le proteste si sono trasformate in saccheggi che stanno a turno colpendo le diverse zone della città, ma continua a far sentire la sua voce attraverso le sue piattaforme social, dove mostra le immagini delle proteste pacifiche in tutti gli Usa, quelle che a suo dire “i media non mostrano perché questo è unità, pace, bellezza e amore”.
Ha usato i social anche Steve Nash: il canadese ha messo la faccia di George Floyd come immagine del profilo, ma il suo messaggio è ancora più forte. “Questo è un problema dei bianchi. Come possiamo noi creare uguaglianza? Ascoltando. Leggendo. Mettendoci nei panni degli altri. Organizzando. Cambiando”.
AZIONE
Lonnie Walker, giovane speranza degli Spurs, ha scelto un altro modo per far sentire la propria voce: si è unito ad un gruppo che ha ripulito il centro di San Antonio dai graffiti e dai danni lasciati durante le proteste. JR Smith invece si è fatto notare a modo suo: è stato ripreso mentre picchiava un uomo che gli aveva vandalizzato l’auto. Ma prima anche lui aveva fatto sentire la sua voce. Quella dell’intero mondo Nba, che prova ancora una volta ad essere parte della soluzione a quel problema di cui nessuno ha parlato per anni e che torna prepotentemente d’attualità. Basta una scintilla per ispirare il cambiamento, è il messaggio che diversi giocatori hanno cercato di far arrivare ai loro fan. Molti giocatori stanno provando ad essere quella scintilla.
Fonte:Gazzetta.it